ZTL, zone 30, carreggiate ristrette, posti auto eliminati… La preoccupazione per realizzare città più vivibili può diventare guerra ideologica alle auto e alla mobilità privata, basata su presupposti fragili e pretestuosi. Un modello di città preindustriale che penalizza tutti i cittadini, in particolare le categorie più svantaggiate.
(Questo articolo è la sintesi, con qualche aggiornamento, di un documento di analisi – discussion paper – pubblicato dal centro studi “Bridges Research”. Per scaricare il paper integrale, clicca qui).
Negli ultimi anni si sta sviluppando in una parte dell’opinione pubblica la foga di richiedere misure che limitano la circolazione delle automobili, soprattutto nelle città, ignorando le situazioni in cui tali misure sono controindicate.
Non parliamo della legittima ambizione a sviluppare nuove soluzioni di mobilità, ma di una vera e propria “guerra” alle auto, che ignora le complesse esigenze urbane e delle diverse categorie di cittadini. Una guerra condotta non solo con divieti, come le draconiane esclusioni dell’accesso ad alcune aree, ma anche con imposizioni di fatto, come restringimenti di carreggiata, zone 30, pedonalizzazioni, eliminazione di posti auto, ecc.
Il pensiero sottostante non è “cambiate l’auto” (con una meno inquinante) o “usate di meno l’auto” (più responsabilmente), bensì “rinunciate all’auto”. E dovete farlo non progressivamente e liberamente, perché vi offriamo nuove opportunità di spostamento. Ma perché vi obblighiamo, forzatamente e repentinamente, senza reali alternative.
1. Un obiettivo dichiarato: costringere i cittadini ad abbandonare l’auto
Stiamo esagerando? Stiamo dando credito a teorie complottistiche?
Il fatto è che – per aggregare più facilmente consenso su singoli interventi e depotenziare la reazione della cittadinanza – la guerra alle auto non è proclamata pubblicamente, ma viene mascherata da slogan preconfezionati: “Si tratta solo di interventi per rendere le città più vivibili e sicure”.
Chi però abbia la pazienza di non fermarsi agli slogan può scoprire che l’eliminazione delle automobili è un obiettivo esplicitamente dichiarato (sia pure all’interno di accordi e documenti a cui si dà scarsa pubblicità).
È quello che si propongono, infatti, gli “obiettivi ambiziosi (ambitious target)” del C40, la rete di città di tutto il mondo (oggi quasi 100, tra cui Roma e Milano) che ha definito un “piano d’azione per affrontare la crisi climatica” (The future of urban consumption in a 1.5°c world). Questi obiettivi prevedono zero (!) auto entro il 2030 (cioè dopodomani); insieme con l’eliminazione completa del consumo di carne e latte (!), la riduzione della possibilità di viaggi aerei a 1.500 km totali ogni tre anni, il tetto massimo di tre capi di abbigliamento acquistabili ogni anno (si spera che la biancheria non sia compresa…) e altre facezie simili.
Esistono anche – bontà loro – “obiettivi graduali (progressive target)”, secondo i quali, entro quel termine, possiamo permetterci ben… 190 auto ogni 1.000 abitanti! Per capire l’assurdità di tali numeri, basti rilevare che nel 2023 la media europea era di 571.
Insomma, con questi “obiettivi” – tipici del razionamento da economia di guerra – usciamo dal perimetro delle legittime preoccupazioni ambientaliste ed entriamo in quello del fanatismo da regime totalitario.

Peraltro, anche gli obiettivi “graduali” pongono una pesante ipoteca sulle libertà personali di moltissimi cittadini: con che criterio vengono “selezionate” le persone legittimate a possedere e utilizzare un’auto?
Non c’è più la preoccupazione di rendere le città più vivibili, di ridurre il traffico e l’inquinamento. Resta solo lo sforzo di avviarsi verso astratti progetti di ingegneria sociale, basati su una decrescita (in)felice e su un sistema di pianificazione e controllo da parte dello Stato.
2. Gli interventi di “mitigazione del traffico”
La guerra alle automobili non emerge solo dalle pieghe di documenti ufficiali, ma anche dal tenore di interventi regolamentari e urbanistici a cui è stata attribuita la rassicurante denominazione di “mitigazione del traffico” (traffic calming).
Intendiamoci: alcuni possono essere interventi utili, se sono fondati su una seria pianificazione urbanistica e su un’attenta valutazione dell’impatto sulla vivibilità dei quartieri, anche sotto l’aspetto di un’analisi costi (anche sociali) / benefici.
Invece sono spesso forzati e calati dall’alto, perché – sotto gli slogan che invocano “città più vivibili e moderne” – nascondono altri fini.
Innanzitutto la guerra alle auto, basata sull’approccio “rendiamo la vita impossibile alle automobili per disincentivarne l’uso”; guerra che si traduce in una compressione più generale della mobilità privata o addirittura – come vedremo – della mobilità in sé.
Ma quegli interventi celano anche interessi economici (le lobbies dei locali di somministrazione che cercano nuovi spazi per gazebo e tavolini), politico-elettorali(categorie e gruppi di pressione piccoli ma coesi, non solo ambientalisti), ideologici (l’aspirazione a una maggiore pianificazione statale della vita sociale).
Cosicché si cerca di farli accettare all’opinione pubblica sulla base di presupposti fragili e pretestuosi.
2.1. ZTL e “congestion charge”
Una Zona a Traffico Limitato, che esclude dalla circolazione alcune categorie di veicoli, ha senso nel Centro storico di una città, per razionalizzare l’uso di una risorsa (lo spazio) scarsa, in cui si concentrano numerosi servizi che effettivamente costituiscono un attrattore di traffico difficilmente sostenibile. Le caratteristiche di ogni ZTL – estensione del territorio interessato, limitazioni – devono però essere strettamente legate a questa esigenza di razionalizzazione, cioè di contenimento del traffico e dei tempi necessarî per gli spostamenti urbani (mentre i fattori inquinamento e sicurezza, come vedremo, sono ormai molto meno rilevanti).
Ben diverso il caso di ZTL estese a vastissime aree di territorio urbano, interdette a quasi tutte le categorie di veicoli, prolungate anche a fasce orarie a basso traffico: qui l’esigenza diventa semplicemente la guerra alla mobilità con l’automobile privata.
Un esempio è la nuova ZTL “fascia verde” di Roma, cui abbiamo dedicato uno specifico articolo di analisi e di “fact cheking” .
Considerazioni simili si possono formulare per la “congestion charge”, una tassa per la circolazione dei veicoli all’interno delle zone urbane più centrali.
La sua introduzione è prevista anche a Roma nel 2026, all’interno della cosiddetta ZTL VAM (più estesa della ZTL Centro e meno estesa della ZTL Fascia Verde: comprende il Centro storico, Prati, Trastevere, l’area della Stazione Termini e di Porta Pia, Aurelio e Testaccio).
La modulazione della misura definisce gli obiettivi che si prefigge: strumento per razionalizzare la circolazione o ulteriore balzello per scoraggiare la mobilità privata.
2.2. Restringimenti di carreggiata, piste ciclabili, eliminazione di posti auto
Alle limitazioni esplicite bisogna aggiungere una quotidiana erosione degli spazi per la circolazione e per la sosta di autovetture.
La motivazione ufficiale è che “la città non deve essere solo a misura di automobile, ma fruibile anche da ciclisti, pedoni, persone con disabilità”. Giustissimo. Ma gli interventi cui assistiamo vanno davvero in questa direzione?
In realtà si tratta spesso di interventi utili solo a restringere la carreggiata, nella logica proclamata già nel 1999 da Chantal Duchène, responsabile per la pianificazione dei trasporti nell’Île-de-France: “con le corsie per autobus, le piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi i tempi di percorrenza in macchina si allungheranno e gli altri mezzi di trasporto diventeranno più allettanti”. E infatti a Parigi, dal 2002 al 2022, la velocità media di spostamento in auto è diminuita da 16,6 a 12,4 km/h (-25%).
Insomma: non ci si preoccupa di rendere più efficienti le alternative all’automobile, ma di costringere i cittadini a utilizzarle per… disperazione!
Assistiamo così ad allargamenti dei marciapiedi che non servono a garantire più spazio ai pedoni, perché sono presto occupati dai gazebo e dai tavolini dei locali di somministrazione. Né a garantire attraversamenti pedonali più sicuri, poiché nei casi di necessità un semaforo a chiamata pedonale o un’isola salvapedoni (se la strada è davvero larga) sono molto più efficienti.
Anche gli interventi sui “black points”, le intersezioni stradali a massimo rischio, possono essere dettati dall’esigenza di ostacolare il traffico veicolare al di là delle effettive esigenze di sicurezza; fino a casi clamorosi, in cui non solo il traffico viene paralizzato in maniera immotivata, ma i sinistri aumentano.
Ugualmente molte piste ciclabili, largamente sottoutilizzate, sono realizzate soprattutto per restringere lo spazio utile al transito delle autovetture (o per eliminare posti auto). La rete ciclabile va invece sviluppata con criterio, dove lo consente la sede stradale, che non può essere frazionata all’infinito.
I posti auto spariscono progressivamente (un po’ alla volta, per non destare allarme immediato: il trattamento delle rane bollite), con motivazioni tra il poetico e l’apodittico: “le distese di lamiere sono brutte” (certamente non sono un’opera d’arte; ma questo tipo di giudizio magari è espresso dalle stesse persone che manifestano un entusiasmo adolescenziale per le vernici chiassose e decontestualizzate – nonché presto scolorite e simbolo di degrado – del cosiddetto “urbanismo tattico”); “bisogna restituire spazio alla socialità” (magari c’è un parco o un’area pedonale a 20 metri di distanza. Ma qualche giustificazione a effetto bisogna pur trovarla); “basta con la sosta selvaggia” (che però è incoraggiata proprio dalla diminuzione di posti auto!); ecc.
Priva di ogni fondamento anche la tesi per cui “con i parcheggi gli automobilisti privatizzano le strade, che sono un bene pubblico”: chi lo sostiene dimostra assoluta confusione sui concetti di bene pubblico e bene privato. Alcuni beni pubblici come le strade, infatti, sono caratterizzati da “rivalità” nell’uso, per cui più soggetti diversi non ne possono fare un uso contemporaneo, ma solo alternato: la loro natura di “bene pubblico” viene perciò rispettata se nessun singolo privato ne fa stabilmente un uso esclusivo.
Chi parcheggia la propria autovettura, quindi, non “privatizza” la strada, perché ne fa un uso sì esclusivo – com’è inevitabile -, ma per un tempo limitato. Accade anche per chi si siede su una panchina pubblica o per chi gioca a pallone su un prato pubblico. L’importante è che la fruizione non sia ininterrotta, ma possa essere alternativamente consentita ad altri soggetti (altrimenti avremmo non un uso lecito, ma una “occupazione di suolo pubblico”, che è illecita). Peraltro, negli spazi di sosta utilizzabili dalle auto possono parcheggiare anche biciclette e motocicli.
Che cosa si dovrebbe dire, semmai, degli spazi pubblici riservati a specifiche categorie di veicoli (stalli di sosta per biciclette e motocicli, piste ciclabili)? Che sono “privatizzati” dai ciclisti? Il problema si pone quando questa esclusività è concretamente di ostacolo alla fruizione comune degli spazi: ad esempio quando gli stalli riservati non vengono riempiti o quando le piste ciclabili ostacolano la circolazione complessiva. Ma è un problema di corretta gestione degli spazi pubblici, non di “privatizzazione” (termine che vorrebbe impropriamente indicare l’uso stabile ed esclusivo da parte di singoli privati).
Si diffondono anche teorie surreali, come quella secondo cui i parcheggi vanno eliminati perché sono “attrattori di traffico”(?!). Suvvia: se viene costruito un ospedale – un museo, uno stadio, ecc. – con un parcheggio di servizio, è quest’ultimo che “attrae” le auto oppure la struttura per il cui servizio è stato realizzato? I cittadini andrebbero in ospedale (o al museo o allo stadio) solo per… il gusto di parcheggiare?
Il ragionamento ha senso quando nelle stesse tratte vi sono mezzi di trasporto pubblico efficienti, ma sottoutilizzati. Se però questi mancano, togliendo il parcheggio si ottiene solo il risultato di incoraggiare la sosta selvaggia. Si arriva addirittura a osteggiare i parcheggi di scambio, che servono proprio a ridurre l’uso delle auto! Lo si è visto con il recente provvedimento del Comune di Roma sulla nuova “fascia verde”, che ha ricompreso all’interno del suo perimetro alcuni parcheggi di scambio.
Altra teoria surreale (o ipocrita) è quella secondo cui bisogna restringere le carreggiate per “impedire le doppie file”. Insomma: imprechiamo contro i veicoli in doppia fila, perché intralciano il traffico riducendo la carreggiata a una sola corsia. E per rimediare… proponiamo di ridurre la carreggiata stabilmente a una corsia?!
Senza dimenticare che la riduzione dei parcheggi è spesso promossa in maniera ipocrita.
Vale di giorno, per i residenti (e i lavoratori), nei confronti dei quali non vuole scoraggiare solo l’uso “eccessivo” delle automobili, ma anche il loro possesso: impedire di parcheggiare nei pressi di casa a chi non possiede un garage significa espropriarlo dell’auto.
Però la riduzione dei parcheggi non opera di sera, per gli avventori dei locali della movida, i quali (non servendosi certo di biciclette, monopattini, car sharing…) lasciano impunemente la macchina in tripla fila o sui marciapiedi! Una situazione tollerata – o voluta – per acquiescenza verso il profitto privato di pochi, consentendo che le strade diventino un gigantesco parcheggio a cielo aperto per i frequentatori di locali.
Per giustificare la riduzione degli stalli di sosta si sostiene anche – ammettendo in tal modo di voler aggredire il possesso in sé dell’automobile – che a volte il numero di auto supera i titolari di patente: le auto in sovrannumero parcheggiate in strada determinerebbero un’eccessiva occupazione di suolo pubblico.
Tuttavia, tralasciando le considerazioni sul reale impatto del fenomeno, bisogna sottolineare che le disfunzioni specifiche devono trovare soluzioni mirate: ad esempio prevedere, per le automobili successive alla prima intestate alla stessa persona, incrementi della tassa di proprietà o la revoca dell’esenzione per le strisce blu o – in casi limite – l’obbligo di disporre di un posto auto privato. Oppure agevolazioni fiscali per auto di piccolo ingombro possedute da chi risiede in città (come accade in Giappone).
Se invece si penalizza in via generale il possesso di auto, si compromette la mobilità personale in maniera indiscriminata e si colpiscono le categorie più svantaggiate o che dell’auto hanno maggiore necessità.
Con l’erosione degli spazi per la circolazione e la sosta di autovetture si giunge a conseguenze irrazionali. Se il numero di auto non diminuisce a sufficienza (perché chi le usa non può farne a meno e/o in mancanza di un’alternativa di trasporto pubblico efficiente), questi interventi accrescono traffico e inquinamento: carreggiate più strette significano file più lunghe e tempi di percorrenza maggiori (anche per i mezzi pubblici, laddove non ci sono corsie preferenziali!); assenza di parcheggi significa lunghi giri per trovare il posto libero; ecc.
2.3. Zone 30, isole ambientali, pedonalizzazioni
Altri interventi utili, se attentamente programmati, possono essere le zone 30 e le isole ambientali: ottime nei quadranti che presentano le caratteristiche necessarie (strade strette non di scorrimento e senza marciapiedi). Diventano invece inutilmente deleterie, ulteriori cavalli di Troia contro le automobili, se si ha la pretesa di far diventare “zona 30” l’intera città o comunque di rallentare inutilmente le arterie di scorrimento (tra quartieri e interne ai quartieri): la cosiddetta “città 30”. Serve quindi un attento confronto tra costi e benefici.

I benefici devono essere correttamente misurati.
Quelli sull’ambiente, poiché la velocita ridotta potrebbe aumentare i consumi (e le conseguenti emissioni), considerato che la velocità media ottimale – in termini di efficienza energetica – è superiore ai 30 km/h sia nelle auto elettriche sia in quelle a combustione interna.
Ma anche i benefici sulla sicurezza possono non corrispondere interamente a quelli attesi. Anche quando si registra una riduzione dell’incidentalità, questa può essere dovuta a fattori diversi: le variazioni nei flussi di traffico (l’introduzione delle zone 30 è normalmente seguita da una riduzione del numero di automobili circolanti), le modifiche nel sistema della segnaletica e dei controlli (che riducono gli incidenti dovuti al mancato rispetto di limiti e regole che c’erano già: diminuiscono così non solo gli incidenti a 35/40/45 km/h, ma anche e soprattutto quelli provocati da veicoli che prima andavano a 60/70/80 o commettevano altri tipi di infrazioni in un contesto di minore efficacia preventiva).
I dati devono essere disaggregati, per verificare l’effettività dei benefici di una zona 30 determinata e misurarne la portata.
Quanto ai “benefici sociali” – incentivare la “mobilità attiva”, ridurre lo stress, rendere la città più a misura di persona – non sono benefici oggettivi e misurabili.
La rilevanza dei benefici dev’essere poi messa a confronto con i costi derivanti dall’aumento dei tempi di percorrenza, costi – realmente misurabili – che sono sia economici sia sociali: perdita di opportunità familiari, sanitarie, culturali, ricreative. Va peraltro ricordato che i tempi di percorrenza aumentano anche per il trasporto pubblico di superficie.
Per gli approfondimenti su questo argomento rimandiamo in ogni caso a un articolo specifico sulle zone 30 (dove tra l’altro spieghiamo perché gli argomenti portati a sostegno di una presunta “neutralità” dei limiti di 30 km/h sui tempi di percorrenza non sono corretti).
Per inciso, in Europa si iniziano a vedere le prime retromarce: a Berlino è stata annunciata l’eliminazione dei limiti di 30 km/h nelle principali arterie di scorrimento…
Alcune considerazioni sin qui effettuate si possono riprendere anche per le pedonalizzazioni.
In molti casi sono utili o necessarie, per valorizzare spazi urbanistici e garantire ambiti di socializzazione. In altri casi non garantiscono né decoro né socialità, perché sono pensate solo per gazebo e tavolini dei locali in concentrazione soffocante, oltre che per espellere le automobili. Bisogna quindi valutarne l’impatto nelle situazioni specifiche: ad esempio, alcune pedonalizzazioni possono essere utili solo nei giorni festivi.
2.4. Dissuasori di velocità e parapedonali
Tra gli interventi di “mitigazione del traffico” non vanno dimenticati dissuasori di velocità e parapedonali.
Anche qui: utili se installati nei punti realmente critici. Ma quando sono pensati solo per ostracizzare le automobili possono diventare un inutile intralcio alla circolazione, una fonte di inquinamento (l’alternarsi di frenate e accelerazioni tra un dissuasore e l’altro), un pericolo per la sicurezza (i rischi per i mezzi di soccorso e per quelli a ridotta stabilità determinati dai dissuasori fisici; l’impedimento di alcuni parapedonali al transito di passeggini e carrozzine).

Per approfondire, rimandiamo a un articolo apposito sui dissuasori.
3. I presupposti (spesso fragili) dei provvedimenti contro le auto
3.1 . L’inquinamento
Quando si vuole limitare la circolazione dei veicoli privati a motore, si agita innanzitutto lo spettro dell’inquinamento urbano, che nella percezione dell’opinione pubblica resta un problema serio provocato da tale forma di mobilità.
Eppure le emissioni inquinanti in Europa, dal 1990, si sono ridotte di oltre i 2/3:

Quanto al nostro Paese, “i dati del 2023 delineano un quadro di generalizzato miglioramento rispetto al recente passato e un consolidamento del trend di riduzione registrato negli ultimi 10 anni” (Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, La qualità dell’aria in Italia nel 2023).
Non abbiamo nelle città la qualità dell’aria della Val d’Aosta. Ma ormai le centraline per la rilevazione delle sostanze inquinanti superano solo sporadicamente i valori di guardia.
Questo calo dell’inquinamento, per la componente derivante dal trasporto veicolare, prosegue con un trend costante ed è uniforme in tutte le città, al di là delle misure di “mitigazione del traffico”. Dipende semplicemente dal progressivo e fisiologico ricambio del parco auto circolante: un’auto moderna ha emissioni inquinanti inferiori del 99% a quelle di un veicolo di 60 anni fa (ovvero servono 100 auto di oggi per inquinare quanto una di allora).
L’incidenza delle auto come fonte di inquinamento – rispetto a mezzi di trasporto pesante, riscaldamento, industria, agricoltura – è quindi sempre più ridotta: qualcuno ricorderà che nel 2020, durante il “lock down”, le rilevazioni delle centraline non segnalarono una diminuzione dei valori delle polveri sottili, come ci si poteva aspettare per il blocco totale dei veicoli “inquinanti”. Cosicché l’efficacia di provvedimenti come le “domeniche ecologiche”, in molte città, è ormai irrilevante dal punto di vista della riduzione delle emissioni inquinanti, conservando solo una “valenza simbolica”, volta a “sensibilizzare le persone verso le tematiche ambientali” (v. ad esempio, per Roma, lo studio redatto dall’università Lumsa nel 2024).
Insomma: pensare che il contrasto alla circolazione delle auto possa ridurre significativamente l’inquinamento significa guardare la realtà con… lo specchietto retrovisore.
Prima di progettare misure che limitano la circolazione, bisognerebbe darsi pena di verificarne il reale impatto sulla salute pubblica. Si parla spesso, infatti, di “migliaia” di morti prodotti dall’inquinamento atmosferico. Dati che però andrebbero ben analizzati, per comprendere: quanti sono i casi in cui l’inquinamento è causa determinante di mortalità (evitando la trappola statistica della “sovrapposizione delle cause di morte”); quanti sono i casi di mortalità precoce; come questi casi siano da distribuire tra le diverse fonti di inquinamento (trasporti, riscaldamento, industria, ecc.) e tra i diversi fattori inquinanti (NO2, O3, PM10, PM2,5); nella componente trasporti, quanti sono da attribuire a specifiche categorie di veicoli (non solo per classe di emissioni – euro 1, 2, ecc. – ma anche per potenza) e quanti al chilometraggio percorso.
Ci soccorre uno studio internazionale sull’andamento della qualità dell’aria in 47 città europee, pubblicato nel 2022 su Nature e realizzato da numerose istituzioni di ricerca, tra cui ENEA (Lockdown policies on reducing air pollution levels and related mortality in Europe): con il blocco totale del traffico nei primi sei mesi della pandemia da Covid-19, a Roma sono state evitate… 18 morti premature da NO2, 6 da O3, 7 da PM10 e 5 da PM2,5 ! A Milano e Napoli sono stati misurati valori di poco superiori, a Torino inferiori.
Ogni vita è preziosa, certo. Ma proprio per questo bisogna scegliere la via più razionale per preservarla. Ebbene, l’impatto sulla salute dei provvedimenti restrittivi della circolazione, vista la tecnologia delle autovetture attuali, è scarsamente significativo; sono più utili interventi sulle altre fonti inquinanti.
Inoltre, in un’elementare valutazione dei costi / benefici, bisogna considerare che l’impatto economico e sociale dei provvedimenti sulle auto può avere ricadute negative sulla salute ancora maggiori: stress negli spostamenti per le persone fragili, difficoltà a raggiungere i presidî sanitarî per chi deve sottoporsi a visite e cure ricorrenti, difficoltà ad accedere a cure più costose per chi perde opportunità lavorative, ecc.
Il fatto è che questo tipo di provvedimenti non mira a ridurre l’inquinamento (come attesta la frequente estensione del divieto ai veicoli a combustione meno inquinanti; o addirittura a quelli parcheggiati!). Lo scopo è piuttosto la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, nell’ambito della lotta al cambiamento climatico.
Però la CO2 non è un inquinante locale, semmai un “climalterante”: cosicché gli interventi in questa direzione non hanno senso in aree specifiche (come le ZTL); e gli interventi di cui parliamo contribuiscono in percentuale risibile alla riduzione del livello globale.
Nemmeno si giustifica l’urgenza della sostituzione del parco auto con auto elettriche, perché lo stato attuale della loro tecnologia, e delle fonti energetiche da cui traggono l’alimentazione, consente vantaggi limitati nell’immediato.
Per i veicoli attuali, che in un’ottica di “polluter pays” sono già sottoposti a un prelievo fiscale ben maggiore dei costi da inquinamento, sarebbe preferibile quindi una sostituzione progressiva, invece di una forzata e repentina.
3.2 La sicurezza stradale nelle città
Il motivo principale invocato per gli interventi di “mitigazione del traffico” è quello della sicurezza L’altro tema principalmente invocato per gli interventi di “mitigazione del traffico” è quello della sicurezza stradale, che, come l’inquinamento, si presta a essere invocata per creare allarmismi e invocare misure “emergenziali” (che perseguono fini diversi).
Ebbene, bisognerebbe ricordare che nelle città circolano milioni di veicoli ogni giorno… Ciò nonostante, in Italia il numero di morti in incidenti stradali è in costante riduzione da decenni: non grazie agli interventi di “mitigazione del traffico” (di là da venire), ma grazie a mezzi sempre più sicuri, grazie alla patente a punti (sia pure applicata in maniera abbastanza blanda), grazie ai maggiori controlli sul rispetto dei limiti di velocità (senza controlli, inutile abbassare i limiti).

Il grafico mostra chiaramente l’efficacia dell’introduzione della patente a punti nel 2003 e dei tutor autostradali nel 2005. Nel 2021 e 2022 c’era stata una risalita dovuta al termine delle restrizioni della pandemia, ma ora è ripreso il trend discendente dei casi mortali rispetto ai livelli pre-Covid (mentre per gli incidenti c’è un assestamento).
La discesa degli infortuni mortali prosegue – sia pure più lenta – anche per biciclette e monopattini (‑21,5% dal 2010, ‑17,8% dal 2019) e per i pedoni (‑24,3% dal 2010, ‑12,0% dal 2019).
I tassi di mortalità dell’Italia nel 2023 sono poco sopra la media europea: 51 decessi per milione di abitanti rispetto a 46.
Nel fare i raffronti con i Paesi più virtuosi (che hanno tassi notevolmente inferiori ai nostri, fino alla metà) si ripropone la necessità di analizzare attentamente i dati: le nostre aree di miglioramento vanno ricercate nella diffusione di interventi di “mitigazione del traffico”? Oppure nella capacità di far rispettare le norme?
Ad esempio quelle sul divieto di guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, le cui infrazioni sono in costante aumento negli ultimi 25 anni e rallentano il calo generale dei morti e feriti. O quelle sul divieto di utilizzare il cellulare alla guida. Appare curioso che le stesse correnti di opinione pubblica restie ad applicare sanzioni efficaci verso coloro che non rispettano il codice della strada sono poi disposte a infliggere, alla generalità dei cittadini, pesanti limitazioni alla mobilità personale.
Un vero paradosso è poi l’impulso dato alla mobilità con le biciclette, che può andare contro l’esigenza di sicurezza.
Infatti, se è vero che chi passa dall’auto alla bici riduce il rischio per gli altri, è altrettanto vero che peggiora la propria sicurezza (ancor più se prima utilizzava i mezzi pubblici), al di là delle misure di “mitigazione del traffico” adottate.
In Italia il numero di ciclisti deceduti è in costante calo da più di vent’anni. Non grazie alle piste ciclabili (rarissime fino a poco tempo fa), ma per i ricordati progressi nell’applicazione del codice della strada:

La discesa del numero di morti per l’uso delle bicilette – che comprende anche quello per l’uso dei monopattini – è peraltro più significativa di quanto dica il dato assoluto, perché negli ultimi anni si è accompagnata a un aumento del numero di questi mezzi in circolazione.
Le piste ciclabili dovrebbero rendere questo mezzo ancora più sicuro, certamente. Ma esiste una soglia non superabile, perché la bicicletta ha un’elevata pericolosità intrinseca che dipende solo in parte dalle misure di protezione adottate nelle strade. Si veda l’esempio dell’Olanda, dove – nonostante i ciclisti godano di tutte le protezioni possibili e gli automobilisti siano abituati da decenni a condividere con essi le strade – gli incidenti mortali sono in crescita (e dei 291 decessi verificatisi nel 2022 solo 141 sono causati da incidenti con auto):

Dunque, legittimo l’obiettivo di offrire alcuni percorsi protetti ai ciclisti: negli assi viarî che lo consentono (senza impatto negativo sulla circolazione) e nella consapevolezza che la morfologia di gran parte dei centri urbani non consente di tracciare una rete protetta capillare.
Ma non risponde a un’ottica di sicurezza complessiva promuovere un massiccio passaggio alla mobilità in bicicletta.
In definitiva, anche l’impatto complessivo sulla sicurezza delle misure di “mitigazione del traffico” dev’essere sottoposto alla valutazione costi / benefici. Altrimenti lo scenario auspicabile sarebbe quello di azzerare la mobilità (sarebbe come se, per azzerare gli infortuni nei cantieri edili, si volesse bloccare la costruzione e/o la ristrutturazione di scuole e ospedali! Oppure come se, per bloccare la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili, si volesse imporre a tutti la cintura di castità…).
Ovviamente si può e si deve accrescere ulteriormente la sicurezza, ma con misure davvero utili: maggiore rispetto delle norme esistenti(anche da parte di motocicli, biciclette, monopattini e pedoni); più controlli per guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di stupefacenti, nonché per l’uso del cellulare alla guida; patente a punti più rigorosa; educazione stradale (non solo per gli automobilisti); diffusione nelle nuove automobili, nei motocicli e nei veicoli pesanti degli ADAS (sistemi elettronici di sicurezza), particolarmente utili anche per proteggere gli utenti vulnerabili (pedoni, ciclisti); rispetto delle strisce pedonali (con telecamere e semafori a chiamata pedonale negli attraversamenti critici).
Che il tema della sicurezza sia sovente un pretesto per imporre un ridisegno delle nostre città emerge chiaramente anche dalle dichiarazioni di alcuni amministratori. Ad esempio l’assessore alla Mobilità di Roma Capitale, Eugenio Patanè, il quale in un comunicato dell’11 luglio 2024, dopo aver presentato alcuni “interventi sulla sicurezza stradale”, ha chiarito che non si tratta solo di sicurezza: “Le opere che andremo a realizzare, inoltre, sono in coerenza con l’obiettivo che ci siamo posti di ridefinire lo spazio fisico esistente a vantaggio dei pedoni e della mobilità dolce, riducendo contestualmente quello oggi riservato alle automobili”.
3.3 . Il traffico (e l’insufficienza di parcheggi)
Tra i diversi motivi per limitare la circolazione delle automobili, il più fondato (anche se il meno invocato dai fautori della “mobilità sostenibile”) è il traffico.
In effetti, lo spazio è una risorsa limitata: se la domanda eccede di molto la disponibilità, si creano situazioni di congestione che rallentano notevolmente – o paralizzano – gli spostamenti urbani. Il problema si pone ovviamente anche per gli spazi che possono essere adibiti alla sosta.
Ebbene: quali misure per ridurre la congestione possono essere considerate ragionevoli? Evidentemente quelle che facilitano e velocizzano gli spostamenti (oppure ampliano le possibilità di parcheggio), non quelle che li impediscono. Le eventuali misure di limitazione della circolazione delle auto devono pertanto essere misure di “razionalizzazione” del loro uso, non di limitazione della mobilità personale.
Il presupposto fondamentale è l’offerta di un’alternativa di trasporto efficiente, che – come vedremo più avanti, analizzando le diverse forme di mobilità alternative all’automobile – in una grande città è innanzitutto una rete metropolitana capillare. Solo in presenza di tale alternativa hanno senso misure per razionalizzare la circolazione di automobili.
Abbiamo già visto che ZTL e “congestion charge” – come anche le strisce blu per i parcheggi – possono essere considerate misure accettabili, a condizione che siano modulate con criterî (estensione, orarî, ecc.) tali da rispondere rigorosamente a un’esigenza di razionalizzare – e non impedire – la circolazione e la sosta.
Invece i restringimenti di carreggiata e l’eliminazione di posti auto si traducono in un ostacolo permanente e indiscriminato alla circolazione; per cui si giustificano in situazioni molto più limitate.
I fautori degli interventi di “mobilità sostenibile” utilizzano l’argomento del traffico molto meno di quanto facciano con inquinamento e sicurezza. Non è così strano, perché alcuni degli interventi previsti, come evidenziato in precedenza, hanno proprio lo scopo di accrescere il traffico e di spingere alla rinuncia all’automobile (se non addirittura alla limitazione degli spostamenti). Cosicché lo slogan “eliminiamo le auto per ridurre il traffico” è puramente strumentale e viene utilizzato quando si vuole creare una bagarre polemica.
Allo stesso modo, ci vuole una notevole dose di sfrontatezza per sostenere che non ci sono spazi a sufficienza per parcheggiare le troppe auto circolanti, e poi agire per ridurre i posti esistenti.
3.4 Contro le auto, misure che non si possono discutere
Quando emerge che il vero obiettivo degli interventi di “mitigazione del traffico” è quello di eliminare le automobili, allora il tono di chi li promuove cambia. Non si nega più l’evidenza, ma si passa alla declamazione retorica: “Bisogna superare il modello autocentrico, costruire una città a misura d’uomo, ecc.”. Ma che cosa significa in concreto? E’ realmente possibile eliminare le automobili dalle città?
Se la retorica non basta, scatta la mannaia del principio di autorità, in base al quale le nuove misure non possono essere messe in discussione: “Hanno dimostrato la loro validità in innumerevoli studi!” Sì, ma… redatti da quali soggetti indipendenti? Sulla base di quali misurazioni oggettive? E soprattutto: in quali situazioni concrete le proposte invocate sono applicabili?
La realtà è che molti dei documenti che circolano a sostegno degli interventi di “mitigazione del traffico” conservano lacune metodologiche, sono ricchi di affermazioni retoriche o contengono dati tagliati e cuciti ad arte per suffragare la posizione sostenuta (anche i Comuni che hanno introdotto gli interventi hanno l’evidente interesse politico a difendere il proprio operato). Documenti che finiscono per imporsi soprattutto grazie al martellamento propagandistico, senza serie revisioni e valutazioni analitiche (si veda la sentenza del TAR nella vicenda del “black point” di via Nomentana – San Basilio).
Tra le motivazioni a difesa di questi interventi vengono richiamate anche le “prescrizioni esterne”. Che però, a ben guardare, non sono indirizzate a specifici provvedimenti sulla mobilità. Oppure sono adottate col concorso dei soggetti che le devono rispettare! (Un esempio di scuola ci viene dalle motivazioni utilizzate nel 2023 dal Comune di Roma per la nuova ZTL “fascia verde”).
Per sostenere gli interventi di “traffic calming” non manca, infine, l’invocazione apocalittica: “Tutto il mondo va in questa direzione!” Ovviamente si citano solo le città che portano avanti la sperimentazione che interessa; si omette di verificare se la loro situazione – grandezza delle città (o porzione interessata dagli interventi), larghezza delle strade, trasporto pubblico, ecc. – è comparabile; si ignorano i casi in cui la sperimentazione è stata abbandonata; ecc.
In conclusione, quasi sempre gli interventi di “mitigazione del traffico” vengono adottati senza analisi di costi e benefici, soprattutto quando non rispondono a una specifica esigenza locale, ma hanno solo l’obiettivo più generale di scoraggiare la mobilità privata con le automobili.
E a proposito di costi economici: ci siamo soffermati su quelli indiretti, derivanti dalle perdite di opportunità per cittadini e imprese. Ma non vanno dimenticati ovviamente quelli diretti: centinaia di migliaia (o milioni) di euro spesi per ciascun intervento. Beh, quando sentiamo dire dai Comuni che “non ci sono i soldi” per erogare servizi o fare manutenzione ai beni pubblici, l’interrogativo se questi interventi siano davvero utili riemerge prepotente.
4. Penalizzare l’automobile senza alternative di mobilità reali?
Se ci sforziamo di restare nell’alveo di un’analisi realistica, possiamo comprendere che l’uso “eccessivo” (quando è davvero tale) dell’auto dipende innanzitutto dall’assenza di reali alternative di mobilità, in particolare di trasporto pubblico.
4.1. Il trasporto pubblico
Il trasporto pubblico locale è una forma di mobilità necessaria nelle città. Dove però la sua qualità è scadente, a parità di altre condizioni, il ricorso all’automobile sarà più frequente. Il numero di automobili sembra maggiore di quello reale (a Roma è sì superiore ad altre città europee, ma inferiore alla media italiana), perché tutti sono costretti ad utilizzare l’auto più spesso; e per lo stesso motivo – assenza di alternative efficienti – questo numero non può diminuire facilmente, anche se si fa la guerra all’automobile.
A Roma, in particolare, la qualità del trasporto pubblico anziché migliorare – sia pure a fatica – negli ultimi anni sta diminuendo... Se i mezzi già adesso sono affollati come carri bestiame, come si pensa di soddisfare un incremento di domanda?

Motivare l’uso ritenuto eccessivo dell’auto con la “pigrizia” dell’automobilista (di cui esisteranno certamente molti casi) diventa un semplice stereotipo.
Peraltro, se si guardano i dati reali, si possono avere sorprese: in Italia, anche se abbiamo il maggior numero di vetture pro capite rispetto ai grandi Paesi europei, tuttavia siamo quelli con la minore percorrenza media (dati UNRAE 2022).
Gli ottimisti sottolineano che, con meno auto in circolazione, i mezzi pubblici aumenterebbero la velocità e, quindi, il numero delle corse, incrementando di conseguenza i passeggeri trasportati. Ma di quanti km/h sarebbe questo aumento, considerando che la velocità non potrebbe migliorare né agli incroci (dove bisogna in ogni caso arrestarsi) né nelle corsie preferenziali o nei tratti a bassa intensità di traffico (dove già ora gli autobus non sono rallentati)? Quale sarebbe, in termini numerici, l’incremento di corse e di passeggeri? Sarebbe sufficiente a rendere disponibile il servizio a tutti coloro che abbandonano l’auto e a rendere dignitosi i tempi di attesa? E come mai già adesso i tempi di attesa sono enormi al di fuori delle ore di punta e nelle tratte periferiche, cioè in situazioni in cui gli autobus non incontrano traffico?
Ad ogni modo, il trasporto pubblico può essere una valida – seppure non completa – alternativa all’auto solo nelle zone più dense (e a condizione che sia organizzato e gestito in maniera efficiente). La copertura offerta, infatti, non può mai essere capillare nelle zone periferiche e negli orarî non di punta, poiché la densità della rete declina inevitabilmente con l’estendersi della superficie e la minore densità abitativa, così come la frequenza di passaggio declina negli orarî di minor utilizzo: condizioni che rendono la gestione della rete pubblica meno remunerativa (e quindi meno efficiente).
Cosicché ai tempi di percorrenza del mezzo pubblico si aggiungono quelli per raggiungere le fermate e quelli di attesa del passaggio: tempi “morti” che accrescono il tempo totale dello spostamento. Questi tempi hanno un’incidenza maggiore su spostamenti brevi; e si moltiplicano se bisogna effettuare più spostamenti, riducendone considerevolmente il numero. Insomma: senza auto ci si può spostare molto meno, perché ha una flessibilità di uso che non è paragonabile con quella dei mezzi pubblici (o di altri mezzi di mobilità complementare).
Senza contare i numerosi casi in cui l’autovettura privata resta necessaria per esigenze o problemi personali: per chi ha figli piccoli, per chi ha problemi fisici, per chi deve accompagnare anziani o disabili, per chi deve trasportare pacchi, per le situazioni di emergenza, ecc.
L’ineliminabilità dell’autovettura fa sì che il mezzo pubblico di superficie si trovi in ogni caso a condividere con i mezzi privati una risorsa comune scarsa, la sede stradale. Se poi, in strade che già non sono larghe abbastanza da consentire la realizzazione di corsie preferenziali, si riduce ulteriormente lo spazio utile (con ciclabili, marciapiedi larghi, ecc.), il risultato è che si riduce anche l’efficienza del traporto pubblico di superficie!
Si giunge, insomma, a un’evidenza comune a tutte le metropoli del mondo: solo una capillare rete di metropolitana – che non risente delle interferenze del traffico e può offrire prestazioni migliori per frequenza, velocità, capacità di trasporto – può offrire una reale alternativa di mobilità (va ricordato per inciso che il tram, non viaggiando su un livello autonomo dalla sede stradale, non può essere paragonato alla metro, anche quando percorre corsie protette).
Le grandi città italiane – con l’eccezione di Milano – hanno una scarsa densità di linee di metropolitana. Il caso più clamoroso è quello di Roma, che ha una densità della rete inferiore 8 volte a quella di Londra, 11 volte a quella di Parigi, 12 volte a quella di Berlino, 14 volte a quella di Madrid!

Questa realtà può generare frustrazione in chi ha fretta di cambiare le cose e teme i tempi lunghi e gli alti costi per la costruzione di nuove linee metro. Ma la realtà non si può aggirare con l’ideologia: i fatti hanno la testa dura. Peraltro, per costruire nuove linee servono sì anni, ma non decenni, come insegna l’esperienza di molte città europee. I resti archeologici non costituiscono un problema insormontabile, perché la profondità delle gallerie è maggiore di quella dello “strato archeologico”; le difficoltà semmai sorgono per le stazioni, che però diventano occasione per portare alla luce tesori altrimenti destinati a restare sepolti.
Il vero problema è che la nostra classe politica non ama stanziare somme importanti per interventi di cui si vedono i frutti a lungo termine.
Attenzione, però: anche se una capillare rete metropolitana ha la capacità di offrire una reale alternativa di mobilità all’auto privata, ciò non significa che abbia la capacità di sostituirla integralmente. Il fatto è che un limite del trasporto pubblico di superficie è presente anche in quello sotterraneo: la densità della rete declina inevitabilmente con l’estendersi della superficie e la minore densità abitativa.
Senza dimenticare che anche questa modalità di trasporto pubblico non è accessibile ad alcune categorie di utenti o nelle particolari situazioni di necessità già ricordate.
In linea generale, una limitazione della mobilità privata (come una ZTL, ampie zone pedonali, ecc.) ha senso soprattutto per i Centri storici, nei quali la concentrazione di servizi costituisce effettivamente un attrattore di traffico difficilmente sostenibile; e, d’altro canto, la collocazione geografica, la superficie limitata, gli spostamenti essenzialmente “radiali” (e non “tangenziali”) consentono di realizzare una rete di trasporto pubblico sufficientemente capillare.
Purché – anche in questo caso – sia fatto salvo il diritto dei residenti a possedere un’auto privata (senza impedimenti surrettizi, come l’eliminazione degli stalli di sosta) e a utilizzarla in tutti i casi in cui resta necessaria.
Non va infine dimenticato che l’esigenza di fluidificare il traffico non si persegue soltanto riducendo il numero delle auto circolanti: non può essere questo il dogma che oscura ogni analisi di ingegneria del traffico. Servono anche, laddove necessarî, interventi infrastrutturali che agevolino la mobilità veicolare: allargamenti (e non restringimenti) di carreggiata, infrastrutture stradali sotterranee, sistemi semaforici “intelligenti” (con lettura in tempo reale dei flussi di traffico), sistemi automatici di segnalazione dei posti auto liberi…
Gli interventi di agevolazione della mobilità veicolare privata hanno anche un non trascurabile vantaggio: non presentano i grandi oneri per l’erario che sono inevitabili col trasporto pubblico, il quale con gli introiti tariffarî copre i suoi costi di esercizio (in Italia circa 12 miliardi di euro l’anno) solo per un terzo. Senza contare gli investimenti.
4.2. Automobili condivise, motocicli e mobilità “dolce”
Ineliminabilità dell’autovettura significa che ognuno debba necessariamente possederne una propria?
Sicuramente sono destinate a sviluppo sempre maggiore le soluzioni di condivisione dell’automobile: car sharing, taxi condivisi, automobili a guida autonoma che servono in successione più clienti…
Ma si tratta di soluzioni ad oggi non risolutive: per la tecnologia ancora immatura, per i costi elevati se la fruizione del servizio non è saltuaria (anche col car sharing il chilometraggio annuo dev’essere generalmente inferiore ai 5.000 km), per le necessità di autonomia personale (a forte rischio nelle occasioni in cui si concentra una forte domanda del servizio). In presenza di tali costi e necessità, si è indotti a possedere un veicolo proprio.
Nel valutare i mezzi sostitutivi delle automobili – e quindi nel predisporre provvedimenti che possano agevolarli – si parla sempre di meno dei motocicli, praticamente equiparati alle auto per il solo fatto di essere a motore; senza tener conto del minore ingombro e, quindi, della minore incidenza su traffico e parcheggi. Tali veicoli, anche se non hanno la versatilità delle auto, per numerosi utenti risultano ovviamente più attrattivi delle biciclette grazie ai minori tempi di percorrenza.
Le forme di mobilità “dolce” (biciclette, monopattini, ecc.) costituiscono forme di mobilità complementare al trasporto pubblico e – in misura minore – alle autovetture private. Il loro sviluppo può essere utile per ridurre l’uso dell’automobile in determinati contesti e per percorsi limitati.
L’auto resta però insostituibile per molte delle situazioni di necessità che abbiamo già evidenziato nel confronto con i mezzi pubblici, nonché per le lunghe percorrenze (nelle metropoli o nei percorsi extraurbani), per le situazioni di maltempo o di emergenza, ecc. Ma anche in virtù della sua minore pericolosità rispetto a biciclette e monopattini. L’ineliminabilità dell’auto è dimostrata dall’esperienza dell’Olanda, dove, nonostante la storica diffusione della mobilità “dolce” e la morfologia del territorio ad essa favorevole, l’uso delle automobili resta largamente prevalente:

Con un trend che è anzi in costante crescita negli ultimi decenni (il momentaneo calo del 2020-21 è ovviamente dovuto alla pandemia da Covid-19):

Per ridurre le necessità di spostamento, un’opportunità è offerta anche dalle nuove forme di lavoro a distanza (augurandoci che non si arrivi al punto di confinare i lavoratori in casa, rendendoli monadi isolate dal contesto lavorativo).
Ma alla fine non si scappa: le politiche che disincentivano la mobilità con l’automobile privata senza aver sviluppato alternative praticabili mettono “il carro davanti ai buoi”, risultando dissennate e antisociali.
In generale, lo spostamento da una modalità di trasporto a un’altra è possibile entro limiti precisi, poiché mobilità pedonale, ciclistica, automobilistica, del trasporto pubblico locale (e, a livello extraurbano, anche ferroviaria e aerea) rispondono a esigenze diverse. Il fatto è che pretendere di forzare lo spostamento dall’automobile ad altri mezzi meno versatili è come pretendere di forzare il passaggio dalla telefonia mobile a quella fissa. Le prospettive di ulteriore sviluppo delle alternative, anche nel senso di nuove modalità di fruizione dell’automobile, consentono sì di immaginare una riduzione del parco auto circolante, ma non una “città senza auto”, possibile solo tra i fumi di visioni utopiche (o, meglio, tra le visioni distopiche di città appositamente progettate, come The Line).
5. Si sta affermando una mobilità “escludente”? (Le “città dei 15 minuti)
Per rendere digeribili divieti e discriminazioni, bisogna ovviamente utilizzare eufemismi accattivanti: mobilità “dolce”, “sostenibile”, ecc.
In realtà sembra diffondersi un concetto di mobilità “escludente”, riservata a cittadini benestanti, giovani, senza famiglia e in buona salute… (Peraltro, ci vuole il “fisico” anche per affrontare le lunghe attese degli autobus sotto il sole o per riuscire a salire sui mezzi pubblici nelle ore di punta).
Un concetto di mobilità con venature moralistiche: la pretesa di imporre stili di vita.
Mobilità “escludente” che si traduce in… immobilità forzata per chi non se la può permettere.
In effetti, c’è un’altra prospettiva ideologica che si fa strada: se per muoverti non puoi sostituire l’automobile, puoi… evitare di muoverti!
Pensiamo ad esempio alle “città dei 15 minuti” di cui oggi tanto si parla: quartieri organizzati per offrire tutti i servizi più importanti in modo che siano raggiungibili a piedi in pochi minuti.
Ebbene, possono essere una cosa molto buona, che consente di ottenere quello che serve senza dover affrontare spostamenti lunghi, recuperando anche una dimensione di vicinato più forte. A condizione che siano un’opportunità e non… un recinto.
Il rischio è che si affermi un nuovo paradigma: “I servizi ‘necessarî’ (secondo la nostra valutazione) te li abbiamo resi disponibili nel raggio di 15 minuti, che vai cercando? A questo punto – se ci accorgiamo che un sistema di mobilità pubblica capillare ed esteso non è concretamente realizzabile, o che la mobilità ‘dolce’ non è praticabile per lunghe distanze – possiamo esimerci dall’offrirti reali alternative di mobilità”.
Di fatto devi restare nel tuo quartiere: non puoi scegliere quel negozio più lontano, non puoi recarti a trovare il familiare che ha bisogno di assistenza… Non puoi accedere ai servizi di eccellenza (università, ospedali, teatri, ecc.) che non sono decentrabili. Non è una fantasia distopica, ma è già realtà in città come Oxford: che è stata divisa in sei distretti – Low Traffic Neighbourhoods – per uscire dai quali con la propria auto lungo le arterie principali si hanno a disposizione 100 permessi l’anno. Si noti che parallelamente i costi dei mezzi pubblici sono notevolmente aumentati!
6. L’importanza economica e sociale della mobilità privata (e le conseguenze irrazionali e discriminatorie degli interventi anti-auto)
Soffermiamoci meglio sull’impatto economico e sociale delle limitazioni alla mobilità con l’automobile privata.
Queste possono pregiudicare in sé il diritto alla mobilità delle persone, che è una forma di libertà personale costituzionalmente protetta (la libertà di circolazione di cui all’art. 16 della Carta), di cui deve essere garantita la “effettività”; anche perché – oltre che diritto fondamentale – è “la condizione per l’esercizio di altri diritti, concernenti le sfere più diverse, dal lavoro, allo studio, alla cultura, allo svago, al turismo” (Corte Costituz., sentenza 36/2024).
Forse non si è riflettuto abbastanza sul ruolo fondamentale che la motorizzazione di massa ha avuto nello sviluppo economico e nel miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita.
Ricordiamo i vantaggi derivanti dal poter utilizzare un’auto privata (al di là delle situazioni di necessità che abbiamo già individuato):
- maggiore libertà nella scelta del luogo di lavoro: senza auto molti sarebbero costretti a sceglierlo in base alla vicinanza o alla raggiungibilità con i mezzi pubblici o di mobilità “dolce”. Le ricadute positive della libertà di scelta non sono soltanto sul benessere individuale, ma anche sull’allocazione delle risorse umane: possono incontrarsi meglio – con beneficio collettivo – opportunità di lavoro e professionalità specifiche;
- occasione di emancipazione per molte donne, consentendo una migliore conciliazione dei tempi familiari (accompagnare i bambini in scuole diverse, ecc.) e lavorativi. Questa conciliazione è ovviamente un’opportunità anche per mariti e padri;
- migliore fruizione dei servizi professionali e commerciali, facilitando la crescita degli operatori che offrono il servizio o il prodotto migliore, anche se non sono “sotto casa” o richiedono il trasporto di pacchi ingombranti (si stimola inoltre la concorrenza da parte di altri operatori);
- possibilità di curare al meglio la propria salute, rivolgendosi ai servizi sanitarî di fiducia;
- consolidamento dei legami di solidarietà familiare e amicale, rendendo più agevoli anche gli impegni di cura verso parenti anziani o malati che abitano lontano o che devono essere accompagnati;
- possibilità di spostarsi più frequentemente per chi ha problemi fisici;
- maggiori occasioni per la cultura e il tempo libero, rese compatibili con i numerosi altri impegni quotidiani;
- maggiore velocità complessiva negli spostamenti, fattore che costituisce una delle basi dello sviluppo economico: è stato stimato che un aumento del 10% della velocità media in una città comporta una crescita della produttività pari al 2,9% (Prud’homme, R., & Lee, C.-W., Size, Sprawl, Speed and the Efficiency of Cities, 1999).
Se si ignorano queste esigenze, si va incontro a un destino di impoverimento e isolamento (anche se mascherato dalla realtà virtuale). Quello che viene propagandato come un modello di città “moderna” – la “città senza auto” – è in realtà un modello di città vecchia, preindustriale.
Non bisogna inoltre dimenticare la natura discriminatoria di molte limitazioni dell’uso – o addirittura del possesso – dell’automobile, che finiscono col comprimere in maniera rozza i diritti delle persone.
Non solo discriminazioneverso le categorie più deboli che, come abbiamo evidenziato, hanno la maggiore necessità di utilizzare l’automobile.
Ma anche discriminazione classista verso i soggetti che non hanno la possibilità economica di soddisfare i requisiti imposti da nuove limitazioni.

Una discriminazione classista è – almeno in questa fase tecnologica – l’imposizione di autovetture elettriche: che costano quasi 10.000 euro in più di quelle endotermiche, richiedono un box auto privato per la ricarica (quella nelle colonnine pubbliche è molto più cara), ecc. Una discriminazione che colpisce non solo le famiglie, ma anche le aziende che non dispongono di decine di migliaia di euro per rinnovare la loro flotta aziendale con auto dai costi elevatissimi.
Una discriminazione classista è la riduzione arbitraria di posti auto: a essere colpiti non sono tanto i “patiti del Suv” (su cui si esercitano le ironie di chi evita il merito dei problemi), quanto i proprietarî di utilitarie che non hanno il garage: come già ricordato, impedire loro il parcheggio in prossimità dell’abitazione non significa “disincentivare l’uso” dell’automobile, ma vietarne surrettiziamente il possesso!
Una discriminazione classista è la selezione su base economica degli utenti che hanno accesso alle forme residuali di utilizzo dell’automobile: taxi, car sharing, ecc.
Gli effetti di queste discriminazioni – che stanno creando una forma di mobility divide – sono visibili nelle città in cui i progetti di “mitigazione del traffico” sono stati realizzati in maniera più spinta.
Si cita spesso Parigi come esempio “virtuoso”, dimenticando di sottolineare che questo ha comportato l’espulsione di larghe fasce della popolazione, non solo dalle zone più centrali: oltre 150.000 abitanti negli ultimi 10 anni.
Facciamo attenzione a non entusiasmarci troppo per esperimenti urbanistico-sociali che altrove stanno già producendo ripensamenti.







Articolo perfetto, non serve una parola di più.
Grazie!