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Mobilità “sostenibile” o mobilità escludente?

ZTL, zone 30, marciapiedi allargati, posti auto eliminati… La preoccupazione per realizzare città più vivibili può diventare guerra ideologica alle auto e alla mobilità privata (penalizzando tutti i cittadini, in particolare le categorie più svantaggiate).

In molte città circolano troppe automobili (anche se – come vedremo – a Roma non sono così tante come si potrebbe pensare…). Bisogna però inquadrare la situazione correttamente, per sviluppare soluzioni di mobilità che portino a una città più vivibile per tutti, senza penalizzare le categorie più svantaggiate per salute, età, condizioni familiari o economiche.

Invece, sembra che ultimamente si stia sviluppando in una parte dell’opinione pubblica – e del ceto politico che le dà rappresentanza – una posizione fortemente ideologica, una vera e propria “guerra” alle auto, che non tiene conto delle complesse esigenze di mobilità di una metropoli, affidandosi a slogan astratti (“Basta con le auto!”) e reclamando divieti e imposizioni: non solo i draconiani blocchi della circolazione (la nuova ZTL “Fascia verde” di Roma); ma anche imposizioni di fatto, – che vanno oltre gli obiettivi dichiarati – come restringimenti di carreggiata, zone 30, pedonalizzazioni, eliminazione di posti auto, ecc.

Attenzione: non stiamo sostenendo che vadano rifiutati pregiudizialmente interventi mirati a incentivare un uso dell’automobile più responsabile (e anche più limitato, laddove risulta soffocante per il tessuto urbano).

Il problema è che il pensiero sottostante ad alcuni interventi non è “cambiate l’auto” (con una meno inquinante) o “usate di meno l’auto”, bensì “rinunciate all’auto”.
E dovete farlo non progressivamente e liberamente, perché vi offriamo nuove opportunità di spostamento (come sarebbe anche utile, per assecondare scelte personali e migliorare la vivibilità delle città); ma perché vi obblighiamo.
Insomma, ci troviamo di fronte a misure pensate per ridurre nell’immediato il numero delle auto forzatamente e repentinamente, senza reali alternative (e questa è già una pesante ipoteca sulle libertà personali di moltissimi cittadini: con che criterio vengono “selezionate” le persone legittimate a possedere e utilizzare un’auto?).
Ma neanche questo basta. Il vero obiettivo è di… eliminarle del tutto!

Un obiettivo dichiarato: costringere i cittadini ad abbandonare l’auto

Stiamo esagerando? Stiamo dando credito a teorie complottistiche?
Il fatto è che – per aggregare più facilmente consenso su singoli interventi e depotenziare la reazione della cittadinanza – la “guerra” alle auto non viene sempre proclamata pubblicamente (e in tutta la sua portata).
Se qualcuno solleva il problema, scatta il fuoco di sbarramento delle obiezioni preconfezionate: “Non c’è nessuna ‘guerra alle auto’, si tratta solo di interventi per rendere le città più vivibili e sicure”.

Chi però abbia la pazienza di non fermarsi agli slogan può scoprire che l’eliminazione delle automobili è un obiettivo esplicitamente dichiarato.
È quello che si propongono, infatti, gli “obiettivi ambiziosi (ambitiuos target) del C40, la rete di quasi 100 città di tutto il mondo (tra cui Roma e Milano) che ha definito un “piano d’azione per affrontare la crisi climatica”.
Questi obiettivi, definiti nel 2019, prevedono 0 (zero!) auto entro il 2030 (cioè dopodomani…); insieme con l’eliminazione completa del consumo di carne e latte (!), la riduzione della possibilità di viaggi aerei a 1.500 km totali ogni tre anni, il tetto massimo di tre capi di abbigliamento acquistabili ogni anno (si spera che la biancheria non sia compresa…) e altre facezie simili.

Esistono anche – bontà loro – “obiettivi graduali (progressive target)“, secondo i quali, entro quel termine, possiamo permetterci ben… 190 auto ogni 1.000 abitanti! (Per capire l’assurdità di tali numeri, basti rilevare che Roma attualmente conta 644 automobili per 1.000 abitanti: leggermente al di sotto della media italiana di 673, un po’ sopra le 583 della Germania, le 571 della Francia, le 525 della Spagna).
Insomma, con questi “obiettivi” – tipici del razionamento da economia di guerra – usciamo dal perimetro delle legittime preoccupazioni ambientaliste ed entriamo in quello del fanatismo che supera il regime sovietico o maoista…
Non c’è più la preoccupazione per rendere le città più vivibili, ridurre il traffico, migliorare l’inquinamento, ma solo lo sforzo di avviarsi verso una decrescita (in)felice.

La Cina di Mao era senza auto

Il fatto che questi obiettivi non siano oggetto di dibattito pubblico, ma siano celati all’interno di accordi e documenti a cui si dà scarsa pubblicità, dovrebbe far riflettere sulla scarsa onestà intellettuale e la scarsa trasparenza democratica con cui vengono portate avanti queste politiche.

Gli interventi regolamentari e urbanistici di “mitigazione del traffico” (spesso utilizzati per altri fini)

La “guerra” alle automobili non emerge solo dalle pieghe di documenti ufficiali, ma anche dal tenore di interventi regolamentari e urbanistici a cui è stata attribuita la rassicurante denominazione di “mitigazione del traffico” (traffic calming).

Intendiamoci: alcuni possono essere interventi molto utili, se sono fondati su una seria pianificazione urbanistica e su un’attenta valutazione dell’impatto sulla vivibilità dei quartieri, anche sotto l’aspetto di un’analisi costi (anche sociali)/benefici.

Invece sono spesso forzati e calati dall’alto, perché – sotto gli slogan del “rendiamo le città più vivibili e moderne” – nascondono altri fini: portare avanti, appunto, la guerra ideologica alle auto, basata sull’approccio “rendiamo la vita impossibile alle automobili per disincentivarne l’uso”; assecondare interessi economici (le lobbies dei locali di somministrazione che cercano nuovi spazi per gazebo e tavolini) o politici (categorie e gruppi di pressione piccoli, ma coesi); ecc.

Passiamo rapidamente in rassegna questi interventi.

La nuova ZTL “fascia verde” a Roma

Nell’aprile 2023 l’avvio dell’installazione delle telecamere ai varchi d’accesso ha richiamato l’attenzione dei romani sulla nuova fascia verde, che introduce nuovi divieti diventando la zona a traffico limitato più grande d’Europa (200 kmq)!
A partire dal 1 novembre 2023 (con una successiva tappa nel novembre 2024) in tale area avrebbe dovuto essere vietata la circolazione – ma anche la semplice sosta, senza esenzioni per i residenti – di mezzo milione (!) di autoveicoli privati, 100.000 veicoli commerciali, 80.000 motoveicoli.
Col montare delle proteste, e vista anche la sostanziale inattuabilità del provvedimento (come si possono sostituire 500.000 auto, se in un anno a Roma se ne vendono 90.000?), nel mese di ottobre la Giunta capitolina ha apportato alcune – seppure insufficienti – correzioni al provvedimento adottato.

Tale provvedimento, anche ridimensionato, resta però esemplare per la mancanza di fondamento dei presupposti che sono stati invocati nel motivarlo; e per gli scopi che emergono dal tenore delle misure previste. Ne abbiamo parlato approfonditamente in uno specifico articolo di analisi e di “fact cheking” sulla nuova ZTL.
In estrema sintesi:

  • non è un provvedimento giustificato dall’esigenza di ottemperare a prescrizioni esterne;
  • non è un provvedimento giustificato dall’esigenza di contenere l’inquinamento (l’assessore alla Mobilità del Comune aveva enfaticamente parlato di “provvedimento di salute pubblica”), perché la situazione dell’inquinamento è in costante miglioramento da anni.

E, in ogni caso, non mira a ridurre l’inquinamento, come attesta l’estensione del divieto (poi revocata) ai veicoli meno inquinanti, i GPL, e addirittura a quelli parcheggiati.

Lo scopo – da perseguire mediante la sostituzione repentina di parte del parco auto con auto elettriche – è piuttosto la riduzione delle emissioni di anidride carbonica; che però non è un inquinante, semmai un “climalterante”. Cosicché gli interventi in questa direzione non hanno senso in aree specifiche, come spieghiamo meglio nell’articolo citato. E nemmeno si giustifica l’urgenza, perché lo stato attuale della tecnologia delle auto elettriche (e delle fonti energetiche da cui traggono l’alimentazione) non consente vantaggi significativi nell’immediato (anziché una sostituzione forzata e repentina sarebbe preferibile una incentivata e progressiva).

La nuova ZTL – fascia verde, oltre a questo scopo di forzare la sostituzione di parte del parco auto, si pone anche quello dell’eliminazione completa di un’altra parte del parco auto.
Lo attesta esplicitamente la disposizione che concede un incentivo (sia pure ridicolo) alla rottamazione a condizione che non faccia seguito l’acquisto di una nuova vettura.
Ma lo si ricava, soprattutto, dal fatto che il provvedimento rende concretamente impossibile a molti sostituire la propria auto: per i costi ingenti, per l’insufficiente diponibilità di veicoli sostitutivi (sia nuovi sia usati a norma).

Restringimenti di carreggiata, pedonalizzazioni, eliminazione di posti auto

Non solo ZTL.
Assistiamo anche a una quotidiana erosione degli spazi per la circolazione e la sosta di autovetture.
La motivazione ufficiale è che “la città non deve essere solo a misura di automobile, ma fruibile anche da ciclisti, pedoni, persone con disabilità”. Giustissimo.
Ma gli interventi cui assistiamo vanno tutti solo in questa direzione? Sono sempre davvero necessarî?

Assistiamo invece ad allargamenti dei marciapiedi che non servono certo a garantire più spazio ai pedoni (perché sono presto occupati dai gazebo e dai tavolini dei locali di somministrazione…); né a garantire attraversamenti pedonali più sicuri (poiché nei casi di necessità un semaforo a chiamata pedonale è molto più efficiente).
Si tratta piuttosto di interventi che – quando non sono a favore dei gestori dei locali – servono piuttosto a restringere la careggiata, nella logica del “rallentiamo la fluidità del traffico, così aumentano i tempi di percorrenza delle auto e queste diventano meno competitive”. Insomma: non ci si preoccupa di rendere più efficienti gli altri mezzi di trasporto, ma di costringere i cittadini a utilizzarli per… disperazione!

Anche molte piste ciclabili – disegnate male, prive di collegamento con una rete ciclabile, in strade strette; quindi largamente sottoutilizzate – sembrano realizzate non per offrire maggiori opportunità di transito ai ciclisti, ma solo per restringere lo spazio utile al transito delle autovetture o per eliminare posti auto (la rete ciclabile va invece sviluppata con criterio, dove la sede stradale – che non può essere frazionata all’infinito… – lo consente e utilizzando anche le corsie preferenziali degli autobus).

I posti auto spariscono progressivamente (un po’ alla volta, per non destare allarme immediato… il trattamento delle rane bollite), con motivazioni tra il poetico e l’apodittico: “Le distese di lamiere sono brutte” (certamente non sono un’opera d’arte; ma questo tipo di giudizio magari è espresso dalle stesse persone che manifestano un entusiasmo adolescenziale per le vernici chiassose e decontestualizzate – nonché presto scolorite e simbolo di degrado – del cosiddetto “urbanismo tattico”…); “Bisogna restituire spazio alla socialità” (magari c’è un parco o un area pedonale a 20 metri di distanza… Ma qualche giustificazione a effetto bisogna pur trovarla); “Basta con la sosta selvaggia” (che però è incoraggiata dalla diminuzione di posti auto!); ecc.

Si diffondono anche teorie surreali, come quella secondo cui i parcheggi vanno eliminati perché sono “attrattori di traffico” (?!). Suvvia: se viene costruito un ospedale – un museo, uno stadio, ecc. – con un parcheggio di servizio, è quest’ultimo che “attrae” le auto oppure la struttura per il cui servizio è stato realizzato? I cittadini andrebbero in ospedale (o al museo o allo stadio) solo per… il gusto di parcheggiare?!?
Il ragionamento avrebbe senso quando vi fossero mezzi di trasporto pubblico efficienti, ma sottoutilizzati. Se però questi mancano, togliendo il parcheggio si ottiene solo il risultato di incoraggiare la sosta selvaggia. Addirittura, alcuni arrivano a osteggiare i parcheggi di scambio, che servono proprio a ridurre l’uso delle auto! Lo si è visto anche con il provvedimento del Comune di Roma sulla nuova fascia verde, che comprende nel suo perimetro alcuni parcheggi di scambio.

Alla riduzione dei posti auto contribuisce peraltro anche il diffondersi delle colonnine di ricarica per auto elettriche con stalli riservati: visti i tempi di ricarica, diminuisce la rotazione dei posti auto e quindi il loro numero complessivo.

Per passare con l’auto bisogna prendere la mira…
Le pedane dei locali: spazio pubblico per profitto privato
Lotta senza quartiere ai posti auto
“Urbanismo tattico” (per la serie: i posti auto – o le aiuole – vi sembravano “brutti”? Si può fare peggio…)

Con l’erosione degli spazi per la circolazione e la sosta di autovetture si giunge a conseguenze irrazionali. Se il numero di auto non diminuisce a sufficienza (perché chi le usa non può farne a meno), questi interventi accrescono traffico e inquinamento: carreggiate più strette significano file più lunghe e tempi di percorrenza maggiori (anche per i mezzi pubblici, dove non ci sono corsie preferenziali!); assenza di parcheggi significa lunghi giri per trovare il posto libero; ecc.

Senza dimenticare che la riduzione dei parcheggi è spesso promossa in maniera ipocrita: vale di giorno, per residenti e lavoratori; ma non di sera, per gli avventori dei locali della movida (i quali non si servono di biciclette, monopattini, car sharing… e lasciano impunemente la macchina in tripla fila o sui marciapiedi!)… Una situazione tollerata – o voluta – senza nessuna finalità di interesse generale, ma solo per acquiescenza verso il profitto privato di pochi, consentendo che le strade diventino un gigantesco parcheggio a cielo aperto per i frequentatori di locali.

Zone 30, isole ambientali, dissuasori di velocità

Altri interventi utili, se attentamente programmati, ma che non devono diventare ulteriori cavalli di Troia contro le automobili, sono le isole ambientali e le zone 30: ottime nei quadranti che presentano le caratteristiche necessarie (strade strette non di scorrimento e senza marciapiedi); inutilmente deleterie se si ha la pretesa di far diventare “zona 30” l’intera città o comunque di rallentare inutilmente le arterie di scorrimento (tra quartieri e interne ai quartieri). Serve quindi un attento confronto tra costi e benefici.

Anche alle zone 30 abbiamo dedicato un articolo apposito, nel quale si evidenzia che i benefici non sono sempre quelli attesi.

Non sull’ambiente, ché anzi la velocita ridotta aumenta i consumi.

E nemmeno sulla sicurezza, perché gran parte degli incidenti sono dovuti al mancato rispetto di limiti e regole che ci sono già.
In quell’articolo abbiamo riportato le analisi su zone 30 in cui il nuovo limite non ha fatto diminuire l’incidentalità (quando si citano dati di segno diverso, relativi alla diminuzione degli incidenti in altre città, solitamente non si evidenzia che il calo può non dipendere dai nuovi limiti in sé, ma all’introduzione di maggiori controlli).

Ovviamente non intendiamo sostenere che le zone 30 non presentano benefici in nessuna situazione.
Però la rilevanza di tali benefici, e quindi l’estensione delle zone 30, non può essere enfatizzata senza metterla a confronto con i “costi” dei provvedimenti di cui stiamo parlando.
I “costi” ambientali, cui abbiamo accennato.
E i “costi” sociali derivanti dall’aumento dei tempi di percorrenza (costi che si possono misurare sia in termini economici sia di perdita di opportunità familiari, sanitarie, culturali, ricreative). Al riguardo, nel nostro articolo sulle zone 30 abbiamo cercato di spiegare perché gli argomenti portati a sostegno di una presunta “neutralità” dei limiti di 30 km/h sui tempi di percorrenza non sono corretti.

Oggi si cerca di ridurre i rischi anche con i dissuasori di velocità.
Ne esistono di molti tipi: ad effetto ottico, ad effetto acustico e/o vibratorio (bande sonore, irruvidimento della pavimentazione stradale), colonnine autovelox, ecc. Se realizzati nei punti realmente critici (e non per costituire un inutile intralcio alla circolazione) possono contenere le velocità in maniera efficace, insieme con altri interventi urbanistici (ad esempio, i cosiddetti “parcheggi alternati”).
Ma chi fa la “guerra” alle automobili spesso preferisce i micidiali dossi artificiali, perché più “efficaci”… Efficaci sì, ma nel creare problemi agli organi meccanici delle auto e alle schiene dei residenti che devono affrontarli spesso, anche a bassissima velocità; efficaci nel creare rischi per la sicurezza dei mezzi a ridotta stabilità (ciclomotori, biciclette e monopattini); nell’aumentare le emissioni inquinanti per l’alternarsi di frenate e accelerazioni; nel creare ostacoli per la circolazione dei mezzi di emergenza e di soccorso (che devono rallentare e che vedono i malati e gli infortunati sottoposti a stress dolorosi).
Ne abbiamo parlato più diffusamente in un articolo apposito.

La sicurezza stradale nelle città

Il motivo principale invocato per gli interventi di “mitigazione del traffico” è quello della sicurezza stradale. Anche se, come visto, i singoli interventi sono spesso realizzati con modalità che vanno ben oltre le esigenze di sicurezza.

Il fatto è che il tema della sicurezza, come quello dell’inquinamento, può essere utilizzato per creare allarmismi tali da giustificare provvedimenti che perseguono altri fini (la marginalizzazione delle automobili).

Ebbene, bisognerebbe anche ricordare che nelle città circolano milioni di veicoli ogni giorno… In Italia il tasso di incidentalità è in costante riduzione da decenni: grazie ai maggiori controlli sul rispetto dei limiti (senza i controlli, inutile abbassare i limiti…), grazie a mezzi più sicuri, grazie alla patente a punti (sia pure applicata in maniera abbastanza blanda).
La diminuzione c’è stata anche per i pedoni e i ciclisti, sia pure meno marcata.

(Nel 2021 e 2022 c’è stata una risalita dovuta al termine delle restrizioni della pandemia, ma non si è tornati ai livelli pre-Covid. A Roma la risalita del 2022 è stata maggiore, con l’eccezione del dato sulla mortalità di ciclisti e pedoni, allineato a quello pre-Covid).

I tassi di incidentalità e di mortalità dell’Italia sono appena sopra la media europea (dati CARE – Community Road Accident Database). Nel fare i raffronti, i dati devono essere attentamente analizzati: le nostre aree di miglioramento vanno ricercate – rispetto ad altri Paesi – solo nella diffusione di interventi di “mitigazione del traffico” o, ad esempio, nella capacità di far rispettare le norme?
Peraltro è interessante rilevare che a Roma, nel 2022, si sono verificati 56,02 incidenti per 10.000 veicoli circolanti (rapporto Aci-Istat): molti meno di quelli che si sono verificati in città più “avanzate” negli interventi di “mitigazione del traffico”, come Milano (80,42), Bologna (72,52) e Firenze (87,03)!

Ovviamente si può e si deve accrescere ulteriormente la sicurezza, ma con misure davvero utili: far rispettare sempre meglio i limiti esistenti e le norme di guida previste dal codice della strada (ad esempio sanzionare in misura più severa la guida pericolosa e – soprattutto – quella senza patente, in stato di ebbrezza, sotto l’effetto di stupefacenti); incrementare i controlli per la guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di stupefacenti, anche di giorno e nelle strade urbane; rendere più stringenti le norme sulla patente a punti; diffondere una capillare educazione stradale (non solo per gli automobilisti); favorire il diffondersi nelle nuove automobili degli ADAS (i sistemi elettronici di sicurezza attiva e supporto alla guida), particolarmente utili per la sicurezza degli utenti vulnerabili (pedoni, ciclisti); far rispettare le strisce pedonali (con una sorveglianza più attenta e, negli attraversamenti critici, telecamere e semafori a chiamata pedonale); migliorare la segnaletica stradale; recuperare gli spazi sui marciapiedi e sulle aree di sosta invasi dalle osp “provvisorie” (che costringono i pedoni a invadere la sede stradale); utilizzare – dove servono – strumenti per la riduzione della velocità (dissuasori, ecc.) efficaci e non pericolosi; esigere il rispetto delle norme anche da biciclette e monopattini (per i quali devono essere introdotti strumenti di identificazione), nonché dai pedoni.

Che il tema della sicurezza sia sovente un pretesto per imporre un ridisegno delle nostre città emerge chiaramente anche dalle dichiarazioni di alcuni amministratori, se solo li si ascolta con attenzione. Ad esempio non potrebbe essere più esplicito l’Assessore alla Mobilità di Roma Capitale, Eugenio Patanè, il quale in un comunicato dell’11 luglio 2024, dopo aver presentato alcuni “interventi sulla sicurezza stradale”, chiarisce che non si tratta solo di sicurezza: “Le opere che andremo a realizzare, inoltre, sono in coerenza con l’obiettivo che ci siamo posti di ridefinire lo spazio fisico esistente a vantaggio dei pedoni e della mobilità dolce, riducendo contestualmente quello oggi riservato alle automobili”.

Non si può penalizzare l’automobile senza offrire alternative di mobilità reali.
Il trasporto pubblico.

Quando dall’analisi di questi interventi di “mitigazione del traffico”, se non addirittura dalle dichiarazioni di politici e amministratori, emerge chiaramente anche l’obiettivo di ridurre – o addirittura eliminare dalla circolazione – le automobili, allora il tono di chi li promuove cambia. Non si nega più l’evidenza, ma si passa alla declamazione retorica: “Bisogna superare il modello autocentrico, costruire una città a misura d’uomo, ecc.”.
Ma che cosa significa in concreto? E’ realmente possibile eliminare completamente le automobili dalle città?

Oppure scatta la mannaia del principio di autorità, per cui le nuove proposte non possono essere messe in discussione.
“Sono proposte che hanno dimostrato la loro validità in innumerevoli studi!” Sì, ma: redatti da quali soggetti indipendenti? Sulla base di quali misurazioni oggettive? E soprattutto: in quali situazioni concrete le proposte invocate sono applicabili?
La realtà è che molti dei dati “scientifici” che circolano a sostegno degli interventi di “mitigazione del traffico” di scientifico non hanno niente: sono dati tagliati e cuciti ad arte, per comporre documenti propagandistici (anche quando diffusi dai Comuni che li hanno introdotti, i quali hanno l’evidente interesse politico a difendere il proprio operato).

Non manca mai l’invocazione: “Tutto il mondo va in questa direzione!” (Ovviamente si citano solo le città che portano avanti la sperimentazione che interessa; si omette di verificare se la loro situazione – larghezza delle strade, trasporto pubblico, ecc. – è comparabile; si ignorano i casi in cui la sperimentazione è stata abbandonata; ecc.).

Se ci sforziamo di restare nell’alveo di un’analisi realistica, possiamo comprendere che l’uso eccessivo dell’auto dipende innanzitutto dall’assenza di reali alternative di mobilità. In città come Roma (ma non solo), in cui queste alternative non sono efficienti, il numero di automobili sembra maggiore di quello reale (abbiamo visto che è sì superiore ad altre città europee, ma inferiore alla media italiana), perché tutti sono costretti ad utilizzare l’auto più spesso; e per lo stesso motivo – assenza di alternative efficienti – questo numero non può diminuire facilmente, anche se si fa la guerra all’automobile.

A Roma la qualità (scadente) del trasporto pubblico di superficie è sotto gli occhi di tutti: frequenze diradate, che comportano lunghi tempi di percorrenza soprattutto per chi deve prendere più di un autobus (non dimentichiamo che il nostro Comune ha una superficie vastissima); aree periferiche poco coperte dal servizio; mezzi già adesso affollati come carri bestiame (se la domanda dovesse aumentare, come si pensa di soddisfarla?).

Sugli autobus di Roma c’è posto per nuovi utenti che lasciano la macchina?

Tale qualità scadente è solo in parte condizionata dal rallentamento prodotto dall’ingente numero di auto circolanti.
Gli ottimisti sottolineano che, con meno auto in circolazione, i mezzi pubblici possono aumentare la velocità e, quindi, incrementare il numero delle corse, aumentando conseguentemente i passeggeri trasportati. In teoria giusto, ma… qualcuno si è preso la briga di misurare questo incremento?
Quante auto dovrebbero sparire dalla circolazione per consentire un reale incremento di velocità degli autobus? E di quanti km/h sarebbe questo aumento, considerando che la velocità non potrebbe migliorare né agli incroci (dove bisogna in ogni caso arrestarsi) né nelle corsie preferenziali o nei tratti a bassa intensità di traffico (dove già ora gli autobus non sono rallentati)? Quale sarebbe, in termini numerici, il conseguente incremento di corse e di passeggeri? Tale incremento sarebbe sufficiente a rendere disponibile il servizio a tutti coloro che hanno abbandonato l’auto e a rendere dignitosi i tempi di attesa? E come mai già adesso i tempi di attesa sono enormi – mezz’ora/tre quarti d’ora – al di fuori delle ore di punta e nelle tratte periferiche, cioè in situazioni in cui gli autobus non incontrano traffico?
Con l’astrazione e l’ideologia – ma sulla pelle delle persone concrete – si costruiscono tanti castelli in aria…

La verità è che a Roma mancano mezzi e autisti (anche perché, se non si fanno pagare i biglietti, le risorse inevitabilmente scarseggiano…).
Se poi aggiungiamo che la qualità del trasporto pubblico romano, anziché migliorare – sia pure a fatica – negli ultimi anni sta diminuendo...

Inoltre, a prescindere dalla situazione specifica di Roma, anche ostacolando l’uso delle automobili e potenziando i mezzi pubblici di superficie, questi non potrebbero mai essere interamente sostitutivi del trasporto privato.

Se usciamo dai fumi delle visioni utopiche (o, meglio, distopiche…), l’automobile non è completamente eliminabile dalle metropoli, perché ha una flessibilità di uso che non è paragonabile a quella di altri mezzi.
Ci sono innanzitutto i numerosi casi in cui l’uso dell’autovettura privata resta necessario – e non sostituibile né dal mezzo pubblico né, come vedremo più avanti, da altre forme di mobilità complementare – per esigenze o problemi personali: per chi ha figli piccoli, per chi ha problemi fisici, per chi deve accompagnare anziani o disabili, per chi deve trasportare pacchi, per le situazioni di emergenza, ecc.
Ma anche nei casi in cui può essere utilizzato il trasporto pubblico, la copertura che offre non può mai essere capillare nelle zone periferiche e negli orarî non di punta. La densità della rete, infatti, declina inevitabilmente con l’estendersi della superficie e la minore densità abitativa, così come la frequenza di passaggio declina negli orari di minor utilizzo: condizioni che rendono la gestione della rete pubblica meno remunerativa (e quindi inefficiente).
Cosicché ai tempi di percorrenza utile del mezzo pubblico si aggiungono quelli per raggiungere le fermate e quelli di attesa del passaggio del mezzo: tempi “morti” che accrescono il tempo totale dello spostamento. Questi tempi hanno un’incidenza maggiore su spostamenti brevi e si moltiplicano se bisogna effettuare più spostamenti, riducendone considerevolmente il numero (insomma: senza auto ci si può spostare molto meno).

L’ineliminabilità dell’autovettura privata fa sì che il mezzo pubblico di superficie si trovi in ogni caso a condividere con i mezzi privati una risorsa comune scarsa, la sede stradale. Se poi, in strade che non sono larghe abbastanza da consentire la realizzazione di corsie preferenziali, riduciamo ulteriormente lo spazio utile (con ciclabili, marciapiedi larghi, ecc.), il risultato è che ostacoliamo anche l’efficienza del traporto pubblico di superficie.

Parlando dei problemi dei mezzi di superficie, ci riferiamo anche ai tram. Se hanno la sede rotabile protetta, sono più rapidi degli autobus (anche se devono sempre fare i conti con gli incroci). Però rubano più spazio agli altri mezzi di superficie… Sono quindi adatti solo a strade molto larghe.

Stiamo cercando di fornire in poche parole la spiegazione di un’evidenza comune a tutte le metropoli del mondo: solo una capillare rete di metropolitana, che non risente delle interferenze del traffico, può diminuire (anche se non eliminare) l’uso delle automobili, innescando un circuito virtuoso che fluidifica il traffico e, conseguentemente, migliora anche l’efficienza del trasporto pubblico di superficie.
Purtroppo Roma è ultima nelle classifiche europee per densità di linee di metropolitana. Senza contare che proprio in questo periodo storico la qualità del servizio è pessima, a causa dei lavori di manutenzione straordinaria che hanno diradato enormemente la frequenza di passaggio dei treni (anche 20 minuti di attesa, in ora di punta, sulla lina B!), con vagoni stracolmi e spesso inaccessibili.

La densità della rete metropolitana di Madrid è 15 volte quella di Roma!

Questa realtà può generare frustrazione in chi ha fretta di cambiare le cose e teme i tempi lunghi e gli alti costi per la costruzione di nuove linee metro. Ma la realtà non si può aggirare con l’ideologia: i fatti hanno la testa dura… Peraltro per costruire nuove linee servono sì anni, ma non decenni, come insegna l’esperienza di altre città europee. I resti archeologici di Roma non costituiscono un problema insormontabile, perché la profondità delle gallerie è maggiore di quella dello “strato archeologico” (le difficoltà semmai sorgono per le stazioni, che però diventano una grande occasione per portare alla luce e valorizzare tesori altrimenti destinati a restare sepolti). Il vero problema è che la nostra classe politica non ama spendere somme importanti per interventi di cui si vedono i frutti a lungo termine… Meglio elargizioni a pioggia che producano consensi immediati.

Per inciso: abbiamo evidenziato che una capillare ed efficiente rete metropolitana può diminuire, ma non eliminare l’uso delle auto. Per due motivi.
Il primo è che un limite del trasporto pubblico di superficie è presente anche in quello sotterraneo: la densità della rete declina inevitabilmente con l’estendersi della superficie e la minore densità abitativa (e se la metro viene utilizzata da un numero insufficiente di utenti, viene meno la compatibilità economica).
Il secondo motivo, ovviamente, è che il trasporto pubblico non è accessibile ad alcune categorie di utenti o in alcune situazioni particolari (trasporto pacchi, ecc.).

In linea generale, una limitazione della mobilità privata (come una ZTL, ampie zone pedonali, ecc.) ha senso soprattutto per i Centri storici, nei quali – da un lato – la concentrazione di servizi costituisce effettivamente un attrattore di traffico difficilmente sostenibile; e – dall’altro lato – la collocazione geografica, la superficie limitata, gli spostamenti essenzialmente “radiali” (e non “tangenziali”) consentono di realizzare una rete di trasporto pubblico sufficientemente capillare.

Le forme di mobilità complementare

Gli altri mezzi di trasporto (biciclette, monopattini, ecc.) costituiscono forme di mobilità complementare, soprattutto nelle grandi città (che hanno spazi di percorrenza molto più elevati): il loro sviluppo è senza dubbio utile per ridurre l’uso dell’automobile in determinati contesti e per percorsi limitati; ma non è determinante per ridurne considerevolmente anche il numero. L’automobile resta insostituibile per molte delle situazioni che abbiamo enumerato parlando dei mezzi pubblici (per chi ha figli piccoli, per chi ha problemi fisici che non gli consentono l’uso di mezzi disagevoli, per chi deve accompagnare anziani o disabili, per chi deve trasportare pacchi); ma anche per lunghe percorrenze, per le situazioni di maltempo o di emergenza, ecc.

La diffusione del car sharing può ridurre il numero di seconde/terze auto. Ma non in misura decisiva, perché permangono sempre necessità di autonomia personale (a forte rischio nelle occasioni in cui si concentra una forte domanda del servizio) e costi significativi (se la fruizione del servizio non è saltuaria), che inducono a possedere un veicolo proprio.

Insomma, non si scappa: bisogna sì sviluppare tutte le forme di mobilità complementare, che possono fornire un utile contributo alla mobilità sostenibile e alla riduzione dell’uso di automobili.
Anche le nuove forme di lavoro a distanza possono ridurre le necessità di spostamento (augurandoci che non si arrivi al punto di confinare i lavoratori in casa, rendendoli monadi isolate dal contesto lavorativo e, in definitiva, alienate).
Ma il contributo decisivo alla riduzione dell’uso di automobili può venire solo dalla realizzazione di un’efficace rete di metropolitane. E non consente in ogni caso di immaginare “città senza auto”.

Si sta affermando una mobilità “escludente”? (Le “città dei 15 minuti)

Qualsiasi iniziativa pubblica volta a favorire lo sviluppo di nuove forme di mobilità, anche per ridurre l’uso dell’automobile, deve perciò avvenire con provvedimenti attentamente ponderati, salvaguardando i diritti essenziali dei cittadini; senza divieti immotivati e discriminazioni arbitrarie.

Invece sembra diffondersi un concetto di mobilità “escludente”, riservata a cittadini benestanti, giovani, senza famiglia e in buona salute… (Peraltro, ci vuole il “fisico” anche per affrontare le lunghe attese degli autobus sotto il sole o per riuscire a salire – nelle ore di punta – su mezzi pubblici). Un concetto di mobilità con venature moralistiche: la pretesa di imporre stili di vita.

La nuova mobilità…
…non è per tutti

Mobilità “escludente” che si traduce in… immobilità forzata per chi non se la può permettere.

In effetti, c’è un’altra soluzione ideologica che pian piano si fa strada: se per muoverti non puoi sostituire l’automobile, e non puoi nemmeno utilizzare mezzi di trasporto alternativi, puoi… evitare di muoverti!

Pensiamo ad esempio alle “città dei 15 minuti” di cui oggi tanto si parla: quartieri organizzati per offrire tutti i servizi più importanti in modo che siano raggiungibili a piedi in pochi minuti.
Ebbene, possono essere una cosa molto buona, che consente di ottenere quello che serve senza dover affrontare spostamenti lunghi, recuperando anche una dimensione di vicinato più forte (come nella “Città Giardino” che il nostro comitato vuole tutelare).
A condizione che siano un’opportunità e non… un recinto: «Devi restare nel tuo quartiere; e quindi non puoi scegliere quel teatro o quel negozio più lontano, non puoi recarti a trovare il familiare che ha bisogno di assistenza, ecc. I “servizi necessarî” nel raggio di 15 minuti te li ho dati, che vai cercando? Per cui posso vietarti di farlo con l’automobile; e, di fatto, non offrirti reali alternative di mobilità (un sistema di mobilità pubblica capillare ed esteso, anche in zone periferiche, è concretamente irrealizzabile; la mobilità “dolce” non è praticabile per lunghe distanze)».
Non è una fantasia distopica, ma è già realtà in città come Oxford: che è stata divisa in sei distretti – Low Traffic Neighbourhoods – per uscire dai quali con la propria auto lungo le arterie principali si hanno a disposizione 100 permessi l’anno… Si noti che parallelamente i costi dei mezzi pubblici sono notevolmente aumentati!

L’importanza economica e sociale della mobilità privata (e le conseguenze irrazionali e discriminatorie degli interventi anti-auto)

Abbiamo definito la guerra alle auto una posizione “ideologica”, perché non parte da una verifica attenta dei presupposti, non analizza la complessità dei problemi e dei diritti da tutelare, non valuta i diversi tipi di impatto. In parte omette volutamente queste valutazioni, perché maschera gli obiettivi perseguiti (diversi da quelli annunciati)…
Cosicché ci troviamo di fronte a misure impossibili da realizzare, sproporzionate e inadeguate rispetto ai presupposti invocati e agli obiettivi fissati; nonché con un insostenibile impatto economico e sociale.

Facciamo un paragone col numero troppo elevato di accessi al pronto soccorso ed ospedalizzazioni. Sappiamo che molti accessi e ricoveri non rispondono a requisiti di appropriatezza, il che provoca grandi aggravi di spesa pubblica e disagi per gli stessi malati (mancanza di posto, attese estenuanti, cure affrettate). Come mai i cittadini effettuano questi accessi “inappropriati”? Per il semplice gusto di fare qualche ora di fila in accettazione o di degenza in astanteria? O, piuttosto, perché mancano sul territorio i servizi sanitarî adeguati (ambulatorî aperti in orarî notturni e festivi, medicina territoriale, assistenza domiciliare, strutture di degenza con assistenza infermieristica, ecc.)?
Ebbene: immaginate che qualcuno proponga, per ridurre il problema… un ticket di 1.000 euro!
Sicuramente gli accessi calerebbero… Ma a discapito della salute, perché rinuncerebbero a recarsi al pronto soccorso – se non pensano di essere in fin di vita – anche persone che stanno effettivamente male, ma non possono permettersi quelle spese. Tutti saremmo concordi nel sostenere che si tratterebbe di un provvedimento insensato, perché inverte i termini del problema: bisogna prima offrire risposte valide e complete alle esigenze di salute, e poi – semmai – disincentivare (in misura ragionevole) l’utilizzo improprio dei beni pubblici.

Similmente: ha senso pensare di imporre la limitazione dell’uso dell’automobile senza offrire prima alternative reali di mobilità (trasporto pubblico innanzitutto)?

Di fronte alle problematiche che abbiamo descritto, motivare l’uso eccessivo dell’auto con la “pigrizia” dell’automobilista (di cui esisteranno certamente molti casi; come anche… di accessi inappropriati al pronto soccorso!) diventa un semplice stereotipo. Peraltro, se si guardano i dati reali, si possono avere sorprese: in Italia, anche se abbiamo il maggior numero di vetture pro capite rispetto ai grandi Paesi europei, tuttavia siamo quelli con la minore percorrenza media (!), come attesta uno studio Unrae del 2022.

Sulle conseguenze spesso irrazionali di tali limitazioni ci siamo già soffermati, analizzandole una per una: obblighi di sostituire le automobili senza che siano in vendita in numero sufficiente; traffico e inquinamento che aumentano, anziché diminuire; sicurezza che migliora per alcuni ma peggiora per altri; ecc.

Conviene spendere due parole anche per evidenziare l’impatto sociale ed economico.

Imporre la limitazione dell’uso dell’automobile senza offrire alternative reali significa innanzitutto pregiudicare il diritto alla mobilità delle persone, che è una forma di libertà personale, oltre che una necessità primaria e un’occasione di crescita sociale.

Forse non si è riflettuto abbastanza sul ruolo fondamentale che la mobilità privata ha avuto nello sviluppo economico e nel miglioramento delle condizioni di vita.
Nessun altro mezzo di trasporto (pubblico o di mobilità complementare), come visto, offre la stessa flessibilità di utilizzo.
Poter utilizzare un’auto privata ha consentito a molti, innanzitutto, maggiore libertà nella scelta del luogo di lavoro: senza auto sarebbero stati costretti a sceglierlo in base alla raggiungibilità con i mezzi pubblici. Le ricadute positive di una maggiore libertà di scelta non sono soltanto sul benessere individuale, ma anche sulla migliore allocazione delle risorse umane: possono così incontrarsi meglio – con maggior beneficio collettivo – opportunità di lavoro e professionalità specifiche.
Poter utilizzare un’auto privata è stata poi per molte donne una grande occasione di emancipazione, consentendo una migliore conciliazione dei tempi familiari (accompagnare i bambini in scuole diverse, ecc.) e lavorativi (questa conciliazione è ovviamente un’opportunità anche per mariti e padri).
Poter utilizzare un’auto privata consente una migliore fruizione dei servizi professionali e commerciali, facilitando la crescita degli operatori che offrono il servizio o il prodotto migliore, anche se non sono “sotto casa” (si stimola così anche la concorrenza e l’emulazione nella crescita qualitativa di altri operatori).
Poter utilizzare un’auto privata consente di curare al meglio la propria salute, rivolgendosi ai servizi sanitarî di fiducia.
Poter utilizzare un’auto privata consente di rafforzare i legami di solidarietà familiare e amicale, rendendo anche più agevoli gli impegni di cura verso parenti anziani o malati che abitano lontano.
Poter utilizzare un’auto privata accresce l’opportunità di fruire di occasioni per la cultura e il tempo libero, rendendole compatibili con i numerosi altri impegni quotidiani.

Ovviamente – sottolineiamo ancora una volta l’ovvietà – l’auto privata non può essere il mezzo di trasporto esclusivo in una grande città, dove troviamo grandi concentrazioni di abitanti ed evidente scarsità di spazi. Si può e si deve quindi ridurre l’uso dell’auto; ma nella misura in cui non si pregiudica la flessibilità degli spostamenti.
Se si ignora questa fondamentale precondizione, si va incontro a un destino di impoverimento e isolamento (totale o “virtuale”). Quello che viene propagandato come un modello di città “moderna” – la “città senza auto” – è in realtà un modello di città vecchia, preindustriale.

Non bisogna inoltre dimenticare la natura discriminatoria di molte l’imitazioni dell’uso – o addirittura del possesso – dell’automobile, che finiscono col comprimere in maniera rozza i diritti delle persone.

Una discriminazione verso le categorie le categorie più deboli che – come abbiamo evidenziato – hanno la maggiore necessità di utilizzare l’automobile.

La nuova mobilità non è per tutti

Ma anche una discriminazione classista. verso i soggetti che non hanno la possibilità economica di soddisfare i requisiti imposti da nuove limitazioni.

Una discriminazione classista è – almeno in questa fase tecnologica – l’imposizione di autovetture elettriche: che costano quasi 10.000 euro in più di quelle endotermiche, richiedono un box auto privato per la ricarica (quella nelle colonnine pubbliche – del tutto insufficienti – è molto più cara), ecc. Una discriminazione che colpisce tanto le famiglie quanto le aziende che non dispongono di decine di migliaia di euro per rinnovare la loro flotta aziendale con auto dai costi elevatissimi.

Una discriminazione classista è anche la riduzione arbitraria di posti auto: a essere colpiti non sono tanto i “patiti del Suv” (su cui si esercitano le ironie di chi evita il merito dei problemi), quanto i proprietarî di utilitarie, che non hanno il garage: impedire loro il parcheggio non significa “disincentivare l’uso” dell’automobile, ma vietarne surrettiziamente il possesso!
(Il cittadino residente è poi di fatto trattato come un cittadino di serie B, perché – come abbiamo ricordato in precedenza – i frequentatori dei locali serali e notturni lasciano impunemente la macchina in tripla fila e sui marciapiedi).

Che fare concretamente per una città più vivibile?

In definitiva, è necessario un nuovo approccio non ideologico alla mobilità sostenibile, basato su interventi che sono la precondizione per la riduzione dell’uso delle automobili:

  • sviluppo del trasporto pubblico, mediante il finanziamento di tutte le nuove linee metropolitane previste, la sostituzione degli autobus più inquinanti, il potenziamento del trasporto di superficie (capillarità e frequenza);
  • programmazione attenta e valutazione di impatto sui flussi di traffico degli interventi urbanistici e sulla viabilità, evitando quelli che diminuiscano la fluidità del traffico senza creare alternative;
  • facilitazione dell’uso delle biciclette, mediante l’accesso alle corsie preferenziali per i mezzi pubblici larghe almeno 4,30 m (come consente il nuovo Codice della strada e dovrebbe recepire il Comune di Roma), la messa in sicurezza delle ciclabili esistenti, la realizzazione di rastrelliere per le bici e i monopattini, lo sviluppo di una rete ciclabile compatibile con le esigenze di fluidità del traffico (non devono essere uno strumento surrettizio per la “guerra” alle auto), il rinnovo degli incentivi all’acquisto;
  • recupero dei posti auto sottratti dalle occupazioni di suolo pubblico “temporanee” (spesso abusive), da auto abbandonate, ecc.;
  • spinta verso forme di mobilità diverse dall’automobile tramite incentivi e non divieti. Ricordando che l’obiettivo non può essere quello di eliminare le auto, che restano una delle forme della libertà di muoversi (oltre che una necessità per molti); ma di ridurne l’uso eccessivo (nella misura in cui provoca traffico e inquinamento) e forzato (per quegli stessi automobilisti che sceglierebbero volentieri altre modalità di spostamento, se fossero funzionali).


(Aggiornamento 20-7-2024)

1 commento su “Mobilità “sostenibile” o mobilità escludente?”

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